In nome del padre: riflessioni.

Per me è sempre una sfida, un “gioco” che mi porta ad essere per prima “autore”. Con lui abbiamo pensato da dove venivano, cosa facevano quanto guadagnavano questi tre uomini che erano racchiusi e rappresentati da un uomo solo, Mario Perrotta.  Psicologie diverse, a tratti complesse quelle dei tre padri dello spettacolo In Nome del Padre. Un unico palco, un unico scenario composto dallo spazio vuoto e da tre statue scarne che rappresentano tre classici della scultura, e una chitarra.

Tre uomini che dovevano essere uno e vice versa. Pulire, lasciare l’essenziale e cambiare pochi elementi per rappresentare un professore sulla cinquantina, elegante, di quell’eleganza quasi borbonica dei secoli scorsi. Un operaio, suo malgrado, ex rockettaro, e un imprenditore del tessile (negozi in centro) napoletano, ignorante e fiero di esserlo, cafone ostentato, un Peter Pan sempre pronto all’aperitivo in centro. Ognuno con i suoi problemi nell’essere genitore. Togliere, invece di mettere, come mi diceva Santuzza Calì, maestra e grande costumista, con cui Mario, scopro chiacchierando durante i nostri discorsi che ci portano sempre al personaggio, ha debuttato come attore. Quasi, la mia mano di costumista, il mio pensiero di costume non si sentono. Ma si vedono e non invadono. Quello che deve fare un costume se è ben pensato con la regia e il testo.

Sabrina Beretta